
Nell’ultimo numero della rivista Mojo, Steven Wilson racconta il suo legame con Pink Floyd at Pompeii e l’esperienza di remixare la colonna sonora del celebre film-concerto. Un tributo sentito da parte di un artista che si definisce, prima di tutto, un fan. Di seguito, la sua dichiarazione completa.
I Pink Floyd sono sempre stati la mia band preferita. Mio padre mi aveva praticamente fatto il lavaggio del cervello facendomi ascoltare The Dark Side Of The Moon, ma non conoscevo quell’altro lato del gruppo – l’aspetto psichedelico, improvvisativo e degli esordi – prima di vedere Pink Floyd At Pompeii. Avevo circa 12 o 13 anni, lo vidi all’Odeon di Chesham, in un doppio spettacolo insieme a Born To Boogie dei T. Rex, che divenne un’altra delle mie ossessioni di lunga data. Vedere i Floyd suonare quella musica, in quella location, con quell’aria da intellettuali distaccati e cool, mi lasciò un’impressione profondissima. In seguito l’ho comprato in VHS e DVD, e l’ho visto tantissime volte. Ne ho sempre avuto una copia sullo scaffale. Remissarne la colonna sonora è stato un incarico da sogno.
In realtà si tratta di una registrazione molto semplice. L’esibizione dal vivo è stata catturata su quattro tracce mono – batteria in mono, chitarre, basso e tastiere in mono – più le voci. Sono poi andati a Parigi per fare delle sovraincisioni, nuove parti vocali, e hanno aggiunto alcuni elementi legati al sound design e agli effetti sonori, ma per l’85% del tempo erano una band strumentale su quattro tracce, quindi non c’era un grande margine di manovra, almeno rispetto a quello che faccio di solito. Ma bisogna ricordare che stavano suonando all’aperto, quindi non ci sarebbe stato molto riverbero naturale. Se li avessi guardati dal vivo, avresti sentito un suono molto asciutto, diretto, con poco riverbero. Come se fossero nel deserto. Quindi ho seguito quella linea.
Ho capito che fu una registrazione molto improvvisata. Ci sono molte distorsioni in alcune tracce, tante fluttuazioni di volume perché il fonico tirava giù il fader o cose del genere. Quindi gran parte del mio lavoro è stato ripulirla. E ho cercato di prestare molta attenzione a ciò che si vede sullo schermo. Quando Roger inizia a suonare il piatto sulla sinistra e poi cammina verso il gong sulla destra, è quello che fa anche il mio mix: prende spunto dalle immagini, come è giusto che sia.
Il motivo per cui i Floyd restano senza tempo è che, in fondo, ciò che fanno si basa su semplicità, atmosfera e texture. C’è una magia, un’alchimia in tutto questo. Se mai servisse un esempio perfetto per spiegare che non devi essere il musicista più straordinario del mondo, ma basta trovare un’alchimia collettiva, avere buone idee e mantenerle semplici, Pompeii è la prova.
E si adatta perfettamente alla band. Gli Who a Pompei senza pubblico forse non avrebbero funzionato. Ma i Floyd, con il loro stile freddo e distaccato, non cercano nemmeno l’approvazione del pubblico. È quasi come guardare un sogno dei Pink Floyd che suonano dal vivo. Come se suonassero in una nuvola. È perfetto per loro.
La colonna sonora uscirà come album. Quindi, ho mixato un disco dei Pink Floyd! Il me stesso dodicenne all’Odeon di Chesham non avrebbe nemmeno potuto immaginarlo. So quanto i fan dei Floyd possano essere critici, quindi sono un po’ preoccupato per la reazione, ma credo di aver fatto la cosa giusta con questo materiale, cercando di affrontarlo dal punto di vista di un superfan. Che è esattamente quello che sono.
Ormai contiamo le ore. A 54 anni di distanza da quella storica sessione a cielo aperto tra le rovine di Pompei, e a 11 anni dall’ultimo disco in studio, venerdì 2 maggio segna l’arrivo del sedicesimo album dei Pink Floyd. Chi lo avrebbe mai detto? Eppure, ancora una volta, la storia continua.
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